Il mese di giugno appena trascorso ci ha lasciato in eredità temperature sahariane. E a noi di NaturaSì, ogni qual volta il pensiero si accosta a ciò che richiama anche se solo fugacemente il deserto, spunta un sorriso, e sulle nostre labbra e facile leggere un nome: Sekem. Che è sinonimo di favola, o forse di qualcosa di molto vicino a quella specie di sogni che, miracolasamente, prendono vita.
Vita, appunto. Sekem, in lingua egiziana, significa vitalità del sole. E non che il sole mancasse nella zona del Cairo; lì, se mai, si è sempre faticato molto per rendere prosperi i solchi nella terra.
Questo, però, fino al 1977, anno della fondazione di Sekem, per mano di Ibrahim Abouleish.
Nel 1975, dopo un lungo periodo trascorso in Austria durante il quale entrò anche in contatto con gli ambienti dell’antroposofia di Rudolf Steiner, il ricercatore scientifico Ibrahim Abouleish torna in Egitto. Sconfortante il quadro: istruzione inesistente e fertilità del suolo seriamente compromessa dall’uso scellerato di concimi chimici e dalla scarsa irrigazione dovuta alla costruzione della diga di Assuan, il tutto sullo sfondo di una lotta nazionalista contro Israele e di una distanza vertiginosa tra le istanze del popolo e la classe dirigente. Non un idillio.
A quel punto, però, Abouleish si rimbocca le maniche. A circa ottanta chilometri dal Cairo, acquista settanta ettari di deserto del demanio, e inizia a costruirvi pozzi per l’acqua. Da lì, nel giro di due anni, nasce Sekem, una comunità che ha sin da subito intrapreso un percorso di produzione biologica e biodinamica. Ai tempi, e a quelle latitudini, un’impresa folle. E invece.
E invece la Comunità Sekem è nel tempo cresciuta in maniera esponenziale, divenendo un vero e proprio riferimento, l’oasi verde nel deserto, il concretarsi di «un’economia basata sulla fratellanza», con imprese che si occupano di agricoltura, orticoltura, trasformazione di prodotti alimentari, produzione di cotone, industria tessile, produzione farmaceutica. Vi vivono e lavorano in armonia circa duemila persone – di diverse etnie: Sekem è esempio di integrazione – e non c’è nemmeno da preoccuparsi per i più piccoli, data la presenza nella comunità di scuole materne ed elementari.
Perché istruzione e cultura – tanto spazio è dato anche all’arte, a Sekem pittura, musica ed euritmia sono delizia dello spirito, pedagogia Waldorf docet – rappresentano due tra gli assi portanti del progetto Sekem, come dimostrano le parole espresse da Abouleish sul ruolo degli educatori, «Ho sempre considerato le doti intellettuali dei nuovi insegnanti meno importanti delle qualità del loro carattere, perché sono queste ultime a influenzare i bambini aiutandoli a diventare uomini». Se Sekem non è un idillio, poco ci manca.
Non a caso a ventisei anni dalla fondazione di Sekem arriva per Ibrahim Abouleish un importante riconoscimento; nel 2003 viene infatti insignito del Right Livelihood Award, una sorta di premio Nobel alternativo. Un titolo tutt’altro che indifferente, per uno dei profeti della Economy of Love, per uno di quegli uomini che sa bene che cosa vogliano dire quelle quattro parole in latino, Per aspera ad astra. Abouleish infatti, perché il suo sogno si realizzasse, dovette fare i conti con impedimenti non da poco in terra d’Egitto, tra banche e istituzioni diffidenti sull’effettiva fondatezza del progetto Sekem, rilascio di permessi in tempi biblici da parte degli organi preposti, e accuse di anti-islamismo avanzate dai capi spirituali che interpretavano la visione del nostro quasi come un’eresia.
E alle stelle, possiamo dirlo, è infine giunto Ibrahim Abouleish con la sua Sekem.
E pare che proprio nel deserto, di notte, il cielo offra mirabilia.
E da diverso tempo, ormai, anche di giorno.
Grazie a Sekem. Alla favola del deserto che divenne realtà.